Nella gara contro l’Olimpia Milano, lo scorso 5 febbraio 2023, il triestino purosangue Stefano Bossi ha preso parte alla sua centesima partita con la canotta biancorossa sulle spalle. In questa video-intervista esclusiva, il playmaker si racconta ripercorrendo passo dopo passo la sua storia dall’infanzia ad oggi, che l’ha visto passare dai seggiolini degli spalti del PalaTrieste al parquet dell’Allianz Dome.
“Questo per me non è un posto qualunque perché guardando dal campo verso l’alto mi viene in mente quando ero piccolino e mi sedevo nei settori “Q” e “O” e per me è un’emozione essere su questi spalti e guardare il campo dall’alto. Quando ho iniziato a venire a vedere le partite della Pallacanestro Trieste avevo 7/8 anni e ora sapere che ho raggiunto le 100 presenze su questo campo per me è un’emozione indescrivibile. Motivo per cui prima di iniziare le partite, durante l’inno, guardo sempre verso l’alto. Quando sono tornato a giocare qui, nel 2016, mio padre veniva a vedere le partite ma non voleva che gli dessi gli accrediti preferendo pagare il biglietto per stare nelle retrovie. Molti suoi colleghi gli domandavano perché non andasse a vedere suo figlio da vicino, lui rispondeva di preferire osservare dall’alto, senza essere invadente”.
“Come è nata la mia passione per il basket? Da mio fratello. Quando lui aveva 6 anni mia madre mi portava a vedere i suoi allenamenti ed un allenatore storico quale Enzo Lonigro prendeva il pallone e me lo metteva letteralmente in faccia chiedendomi di annusarlo. Un po’ alla volta ho iniziato a giocare e pian pianino ho capito che da una passione questo sport poteva diventare anche un lavoro. Una volta trasferitomi a Udine ho poi iniziato a girovagare per l’Italia fino a fare ritorno a Trieste”.
“Parlando i recente con coach Legovich ci siamo resi conto che dove siamo adesso è il frutto di un passaggio di tanti cambiamenti avvenuti nel corso degli anni. Quando sono arrivato nel 2015 ci si allenava in via Locchi, non avevamo un main sponsor ed era l’anno in cui Marco stava cominciando ad intraprendere il ruolo di vice allenatore. Iniziammo quindi il percorso assieme. Passare tante fasi e guardare dove siamo arrivati adesso, esser stato parte di tutto ciò è assolutamente fantastico. In questo percorso ci sono state delle costanti come ad esempio Mario Ghiacci ed altri componenti dello staff, ma anche i diversi capitani susseguitesi nel corso delle ere come Andrea Coronica. Purtroppo non ho vissuto quella di “Cava” ma sto vivendo quella di “Lodo” e ho vissuto quella di Pecile, tante icone di Trieste che sono passate di qua. Far parte di questo gruppo di persone che hanno coronato le 100 presenze a Trieste, da triestino, ti fa pensare di essere nei libri di storia, perché non è da tutti. Sfido qualsiasi altra società di qualsiasi altro sport ad avere nello stesso momento in campo tre giocatori del luogo. Questo ti fa capire come Trieste nasca e cresca come città di basket”.
“Dopo il mio trasferimento a Trapani nella mia via e nelle mia carriera ci sono stati dei momenti di “down”, poiché mio papà è venuto a mancare per una brutta malattia. Provando a rialzarmi nell’agosto successivo, mi sono poi rotto il ginocchio. Quando era arrivato il momento di ripartire mi sono ritrovato nella squadra di Trieste che era finalista e lottava per raggiungere la A1 e dopo due anni in forza ad una squadra neopromossa quale la Orzinuovi, che mi ha dato la possibilità di potermi rilanciare e per questo li ringrazierò sempre; in particolar modo Muzzo e Salieri. Quello è stato un periodo molto importante per me in quanto sono riuscito a rilanciarmi e ad ottenere il titolo di migliore italiano per valutazione in A2 nonostante la squadra facesse un po’ di difficoltà. In questo percorso di crescita – ha continuato Bossi – non posso non ricordare chi ha fatto parte di tutto questo; penso a Eugenio Dalmasson, che nel 2015 mi prese da Trapani e mi diede le chiavi della squadra in mano e la possibilità di giocare con compagni come Javonte, Coronica, Baldasso, e Da Ross; tutte persone a cui tengo molto come anche Gabriele Vittori, il fisioterapista, con il quale siamo nati e cresciuti. Vederli qui assieme a me, penso anche al nostro social media manager Marko, con il quale giocavamo in squadra assieme, è una cosa fantastica in quanto si sviluppano dei rapporti che poi diventano oltre che umani anche lavorativi”.
“Con l’estate scorsa, dopo due anni a Milano, ho avuto la possibilità di tornare qui ed ora credo di essere nel momento più alto della mia carriera cestistica. Essere qui al di la di qualsiasi contesto di impiego e minutaggio, giocando contro determinate squadre e determinati giocatori è per me un sogno ad occhi aperti. Farlo per la mia città mi dà un ulteriore spinta per dare sempre qualcosa in più”.
“Lo spogliatorio attuale? Credo sia una delle chiavi. Ridendo e scherzando con nostri compagni che hanno avuto anche esperienze in NBA abbiamo chiesto loro se avessero mai avuto degli spogliatoi così belli? Il nostro livello di coesione in campo lo si vede ma per fortuna o purtroppo tante cose che accadono nello spogliatoio non si vedono e sono cose che ci aiutano ad essere coesi uno con l’altro. Credo che in un contesto di squadra, se mentre il livello si alza si cerca invece di abbassare gli ego dei singoli, la squadra riesce a rendere di più. Credo che in questo frangente la nostra squadra ne sia il perfetto esempio”.
“Ritornando sulla partita di Milano, con giocatori da NBA sul campo e Ettore Messina sulla panchina, guardando ora il parquet ed immaginarmi li in mezzo, con 6000 tifosi al seguito che hanno realizzato uno striscione per ringraziarmi, è una cosa da pelle d’oca. Ho chiesto alla tifoseria se fosse possibile recuperare quello striscione in quanto per me rappresenta oggi un vero cimelio. Averlo con me sarà sempre motivo di orgoglio”.
“Come mi sento ora? Parte integrante di questo gruppo e voglio continuare ad esserlo. Molto spesso si sente dire ai giocatori di onorare la maglia. Nessuno come me che è cresciuto a Roiano o come Deangeli cresciuto in via Mazzini può sentire più sua questa maglia, sentendo proprio il bisogno di proteggerla, non solo con i risultati ma anche per ciò che significa essere di Trieste. Avere un senso di territorialità per noi triestini è qualcosa di grosso e la società riesce a trasmettere questo aspetto anche a chi arriva da fuori, tant’è che molti giocatori che arrivano da altri posti molto più lontani nel mondo iniziano a sentirsi triestini, penso a Javonte o a Corey. Trieste è una città che ti prende e ti accudisce; ti chiede tanto ma ti dà tanto e ti restituisce il doppio”.